Navigare nella comunità queer – intervista con Lorenzo

Concetti principali: crescere in una famiglia omofoba, il rapporto con la comunità gay e trans di Napoli, l’accettazione della femminilità, il problema del genere come un’imposizione, le differenze culturali tra persone queer italiane e sudamericane.

Parlare al trans pride di Berlino
Trans Pride Berlin. Fonte: www.siegessaeule.de

Questa intervista si è svolta il ventotto luglio 2021, a distanza. Lorenzo aveva risposto alla nostra chiamata per persone con una esperienza di genere non binaria, o non conforme, che volessero condividere la loro storia o i loro pensieri.

Presentazioni

Io mi chiamo Lorenzo, ho trentotto anni, abito a Napoli ma sono venezuelano. Da un anno a questa parte, ho iniziato a farmi domande sulla mia identità di genere.
Prima d’ora, non sapevo neanche fosse possibile, indagare sulla propria identità di genere. Usavo esclusivamente il maschile, e al contrario, mi dava fastidio se mi miei amici mi davano del femminile. Tramite un collettivo queer, ho iniziato ad ampliare le mie conoscenze, ed ho scoperto il perché del fastidio verso il pronome femminile, l’ho superato e me ne sono anche riappropriato.
Ora uso sia il maschile che il femminile. Non solo per un fatto identitario, ma anche per un fatto sociologico.

Ascoltando le esperienze di tante altre persone, attraverso il collettivo, ho capito che ero estremamente complessato. Faccio parte di una famiglia estremamente cattolica e omofobica, quindi sono nato con un senso di colpa profondo per la mia omosessualità, con l’imposizione di una mascolinità tossica, e col sentirmi sbagliato rispetto al mio orientamento sessuale.
Quando poi ho capito che non si trattava soltanto di questo, ma che c’era un elemento di identità di genere, e che quella del maschio non mi rappresentava, ho capito che c’era molto altro da indagare.

Come descriveresti la tua identità, ora?

Io mi ritengo una persona. Indosso indistintamente indumenti maschili e femminili, e li indosso perché mi trovo a mio agio, senza voler sembrare più femminile, o più maschile. Mi piace giocare con l’abbigliamento.

In realtà mi sento a mio agio con la mia identità di genere maschile, però me ne allontano.
Mi piace l’idea di dare un altro tipo di mascolinità: rappresentare una mascolinità che sia più gentile, più aggraziata, più dolce, attributi che di solito vengono dati al ruolo della femmina.
A volte mi accorgo che non ho niente a che fare con i ruolo del maschio, e ne prendo totalmente le distanze. Ti mi dicesti che un’esperienza simile potrebbe essere quella del demiboy nonbinary.
E’ vero che mi sto sempre più allontanando dalla mascolinità, ma è un processo, che non voglio accelerare troppo. Quando vedo i miei amici nonbinary, mi chiedo se abbiano una consapevolezza in più rispetto a me, o se stiano invece facendo un passo più lungo della gamba.
Osservo molto quello che mi succede attorno, che è molto veloce, e allo stesso tempo non ho fretta.

Quali cose influenzano il tuo percorso di scoperta?

Essendo cresciuto a Napoli, le mie frequentazioni sono quelle di Napoli da 30 anni. Finché non riesco a vedere cose diverse e a vivere esperienze diverse, non riesco neanche a farmi un’idea.

Io penso che siamo in una fase non molto emancipata, rispetto ad altri luoghi come Berlino, dove sono stato qualche settimana fa. Lì ho visto il Trans Pride, una parata di 3000 persone interamente trans e nonbinary, in cui prendevano effettivamente la parola. E’ durato quattro ore, e alla fine ho parlato pure io.

Mi sono accorto del fatto che io sembravo un ragazzo di periferia, perché a Napoli siamo tre persone che stanno discutendo di identità nonbinary, e lì erano in quattromila. Penso che dipenda anche dal contesto in cui ti trovi, il fatto che uno riesca ad emanciparsi, a confrontarsi e a superare tante cose.

Trans pride di Berlino: evento organizzato dalla comunità transgender, che ha visto migliaia di partecipanti.
Fonte: Galerie Trans Pride Berlin

Secondo te c’è un rapporto tra la tua identità di genere e il tuo orientamento sessuale?

Innanzitutto ti dico che io ho sofferto tutta la vita, di questo fatto di dover apparire come un maschio. Sono cresciuto con mia mamma, in una famiglia di tutte donne. A me non interessa sapere se il mio essere omosessuale sia genetico, piuttosto che sociologico.

Però, essendo cresciuto sempre con donne, ho sempre avuto dei modi femminili, da quando ero piccolo. Poi mia mamma è una donna bellissima, era una modella, quindi ho sempre cercato di assomigliarle. E mi è stato sempre rinfacciato il fatto di non essere maschile. Questo mi ha causato molta sofferenza.

Io ho vissuto un rapporto molto complesso con la mia identità di genere. Se mi dicessero che il pene definisce l’identità di genere, direi che non è vero. Però in questo corpo maschile mi sento a mio agio. Mi piace il mio corpo. Mi piacerebbe anche avere un seno, e una vagina. Ci ho pensato molte volte, a come mi sentirei ad avere una vagina, e come sarebbe avere rapporti sessuali.
Quando mi capita di vedere porno eterosessuali, immagino come sarebbe avere il seno di una donna, e penso che mi piacerebbe averlo. Questo è il mio corpo, e mi ci riconosco. Ma quando mi impongono di essere maschio, è il panico più totale.

Quindi, il ruolo di genere maschile non ti piace?

Io detesto tutto ciò che deve fare il maschio. Detesto l’ossessione che c’è oggi per il maschio grezzo, con il pene grosso, che si atteggia. Quella figura mi fa schifo.
Io ho molta attrazione per i ragazzi femminili, o che sono seduttivi in modo femminile.

Ma torniamo alla mia identità di genere. L’identità di genere è un problema che mi pongono. La vedo come un’imposizione.

Mi interessa la cosa che hai detto prima sul fatto che avere un seno ti piacerebbe. E’ una cosa particolare, che non vale per molte persone non binarie.

Penso che essere una persona intersessuale sia una ricchezza.

Ti definiresti una persona transgender?

Ho diversi amici e diverse amiche transgender, che sono quelli con cui ho più cose in comune. Mi sento a mio agio con loro, parliamo la stessa lingua. Non mi sento altrettanto a mio agio con i miei amici omosessuali, perché assumono degli atteggiamenti sociali che non mi appartengono.
I miei amici e amiche transgender sono persone con cui mi sento al sicuro, mi sento di poterci parlare. Però abbiamo dei percorsi molto diversi. Loro fanno percorsi ormonali, devono fare delle sedute per poterli ottenere, altri di loro studiano la scienza dietro la terapia ormonale per decidere cosa devono prendere, al di là della medicina che viene imposta.

Io non faccio nessun percorso, neanche quello psicologico. L’unica modifica che faccio al mio corpo è allenarmi con un personal trainer, e ho avuto molte soddisfazioni. Se mi chiamassi transgender, mi sembrerebbe di appropriarmi di un termine che non mi appartiene.

Trans Pride a Berlino, una decina di persone della comunità camminano con in mano bandiere arcobaleno e bandiere trans.
Fonte: Galerie: Trans Pride Berlin

C’è qualche altro termine che ti definisce di più?

Oggi sul mio profilo ho scritto la parola queer. L’ho conosciuta nel 2002-2003, a Roma, quasi vent’anni fa. Al tempo, non aveva lo stesso significato che ha adesso. Queer, prima, era il gay alternativo. L’omosessuale era l’unico rappresentante della comunità.
Trovavo la cosa di essere alternativi stupida, ma da due, tre anni, ho studiato di più cosa significa al livello culturale, sociologico.
Non lo userei per l’identità di genere, ma come collocazione sociale. Io mi sento proprio un disagiato, un disadattato, quindi la parola con cui mi identificherei è genderqueer, piuttosto che transgender o nonbinary. E’ una posizione più politica.

Ti va di parlarci di più della distanza con la comunità omosessuale?

Non soltanto a Napoli, ma in tutti i luoghi, la comunità omosessuale è molto omofobica, e molto complessata in generale. C’è la venerazione del maschio.
In realtà è la scoperta dell’acqua calda: il patriarcato non è solamente imposto dal maschio, ma è insito anche nella mente delle donne e degli omosessuali. E’ talmente connaturato in noi, che lo perpetuiamo.
Siamo permeati nella mascolinità tossica. Come potremmo non esserlo, dato che la società è così? E la comunità gay che ho conosciuto a Napoli è permeata dalla ricerca del maschio col pene grosso, attivo, dominante, che ti tratta male. L’idea che bisogna calpestare tutto quello che viene assunto come femminile.

Vivevo un grande disagio. Nella nostra comunità, se vuoi denigrare una persona, le dici che è passiva, che è effeminata, e la chiami al femminile. Per questo, quando mi chiamavano al femminile stavo male.

Perché è usato come un dispregiativo?

Sì. E quindi soffrivo anche del fatto che potessi avere dei pensieri da passivo. Faccio pochissimo sesso perché sono stato bombardato dalle aspettative di cosa dovevo fare, cosa dovevo essere… ora interagire con un’altra persona è il panico.
Penso che la scoperta di sé stessi è molto legata all’esperienza sessuale. Per questo penso di dover scoprire ancora tanto.
Mi sono sempre allontanato dal sesso perché, con la presenza costante dei ruoli di genere, era sempre sbagliato. In un modo o nell’altro non andava bene. E io ho sempre trovato stupida questa performance.
Ed essendo sempre a disagio negli ambienti omosessuali, me ne sono allontanato.

Non è successo lo stesso nel collettivo queer, però?

Da quando ho iniziato a frequentare questo collettivo, di cui fanno parte tante ragazze, anche ragazze trans, finalmente ho avuto degli esempi. Ci sono ragazze transfemministe, che fanno parte di Non Una Di Meno.
Non ho mai avuto un padre, e mia madre non c’è mai stata, quindi prendo un po’ di qua e un po’ di là. Ora ho visto per la prima volta cosa significa essere una donna con forti ideali, nelle donne del collettivo.
E per la prima volta, ho pensato che essere femminile è la cosa più bella. Ho pensato: “voglio usare il femminile sempre”. E’ stata tutta una scoperta.
Un’altra cosa che è successa è che, all’inizio del secondo anno, si sono aggiunti un sacco di ragazzi trans. Ora girano tante informazioni, tante esperienze, e le persone scoprono di avere molte opportunità.

Molti membri del collettivo hanno transizionato?

E’ successo soprattutto nel mondo delle lesbiche. Tante di quelle che prima si consideravano lesbiche hanno iniziato un percorso di transizione. E quando quest’anno sono tornati in assemblea, erano cambiati.

Io ho sempre avuto un corpo molto esile, ma per i quarant’anni ho deciso di regalarmi un corpo più robusto. Questo ha destato l’attenzione dei miei amici trans: mi dicevano che vorrebbero avere un corpo come il mio, e mi raccontavano delle loro insicurezze.
In un paio di casi, li ho rassicurati, dicendo che io, in quanto omosessuale, li trovavo attraenti come uomini.
Non me lo aspettavo. Ho immaginato se mi piacerebbe fare sesso con un ragazzo trans, e la risposta era assolutamente sì.

Quindi l’incontrare persone trans ti ha aiutato a capire meglio la tua identità?

E’ importante diversificare le proprio conoscenze, ma non è così facile.
Vi racconto un’altra cosa. Siccome sono immigrato a Napoli, e siccome sono anche molto provocatore, ho pensato di creare un incontro tra realtà diverse.
E’ vero che faccio parte di un collettivo in cui esistono tante realtà. E’ un gruppo molto intersezionale, dove si parla molto di questioni come la prostituzione e la blackness. Però è anche un gruppo di persone molto giovani, ed è un vero e proprio safe place.
Io, che sono sudamericano, e domenica parto per la Colombia per un mese, mi rendo conto che ci sono differenze grosse. Lì ci sono queste mie amiche che sono una casa di voguing, la House of Tupamara, e fanno cose estreme.

Fonte: House of Tupamara

Noti la differenza?

Ci sono delle grosse differenze nel modo di pensare.
Mi rendo conto che il mio collettivo di Napoli è formato da persone molto privilegiate, che non sanno effettivamente cosa sia la prostituzione (e va bene così), ma penso che si debba fare molta attenzione alle diversità culturali, se si vuole fare un evento veramente inclusivo.
Gli ho detto che io conosco effettivamente delle persone immigrate, dallo sportello immigrati, che sono donne trans brasiliane. Questo incontro non è mai avvenuto, e non sarebbe mai potuto portare a qualcosa di buono, perché queste mie amiche hanno delle idee diverse rispetto a quelle del collettivo.
Loro hanno, culturalmente, la cosa di essere la femminina dell’uomo. L’idea che la femmina deve essere così, il maschio deve essere così. La donna deve essere mantenuta.
Il loro desiderio è quello di sposarsi, di avere la borsa di Gucci, di avere il soldi per andare a fare il seno. Tutto questo va molto contestualizzato.
Io lo capisco bene che non è una questione di frequentare persone transgender… Ogni parola, a seconda del contesto, assume un’infinità di connotazione molto diverse.

Però siamo d’accordo che confrontarsi con persone che hanno esperienze diverse ti apre la testa, e ti apre il campo visivo?

Sì, ma per me è nato un problema. Purtroppo non ho più argomenti in comune con i miei amici cisgender. C’è un divario di cui prima non mi accorgevo.
Ho già detto che la comunità omosessuale ha dei modus operandi che a me mettono a disagio, quindi la mia comfort zone era stare con i miei amici eterosessuali cisgender, perché lì non sono chiamato in causa, non sono sfidato da nessun punto di vista.

Ora la mia comfort zone non è quella, perché mi rendo conto che con i miei amici eterosessuali non ho più niente in comune. Sono tutti chiusi dentro il loro binarismo. “Le cose funzionano così, e noi rispettiamo il diverso”.
L’unica cosa che riescono a dire è: noi rispettiamo il diverso. All’ultima assemblea che abbiamo fatto sono venuti dei ragazzi eterosessuali cisgender, che apprezzavano moltissimo il lavoro del collettivo. Gli abbiamo chiesto “perché pensate di voler stare in un collettivo queer?” e al loro dire “noi non abbiamo problemi con il diverso”, ho tirato fuori tutto il mio temperamento latino-americano e ho detto “io non entro nei collettivi eterosessuali a dire: io non ho problemi a stare con voi”.

A questo punto scoppiamo a ridere

Se ne sono andati.

Continuiamo a ridere

Purtroppo la tolleranza non funziona. Non è giusto che l’esistenza queer venga vista come una cosa da tollerare.

Io sono anche un po’ estremo. Parlando sempre con persone adulte, talvolta alzo anche i toni. Gli dico: “è dalla notte dei tempi che i maschi cisgender, siccome avevano un pochino più di muscoli, hanno schiacciato tutto quello che potevano schiacciare. Avete detto tutto quello che potevate dire, avete scritto la vostra opinione su tutto. Ora ascoltate!”
Non c’è bisogno di un dibattito, ma di ascolto.
Questo è uno dei motivi per i quali le persone, oggi, in Italia, vedono in Fedez il personaggio progressista. Fuori dall’Italia è dato per scontato che i rappresentanti delle lotte debbano essere le persone oppresse stesse. Anche questo concetto, che è così basilare, genera un blocco.

Ti andrebbe di parlarci delle tue esperienze di coming-out?

In molti casi non ho mai dovuto fare coming-out perché, da un punto di vista di atteggiamento, se ne accorgevano senza che io dicessi niente. E questa cosa mi faceva soffrire.
Già da piccolo, mi è sempre stato fatto pesare di essere omosessuale, e io la vedevo come una cosa da rinnegare, perché la vedevo come una cosa sporca, una macchia. Per questo non giudico quelli della mia generazione che si sono sposati.
Alla fine mi è sempre stato detto “tu sei gay” e io negavo. E infatti ad oggi non potrei mai cercare di indovinare l’orientamento sessuale di qualcun altro. Tu per me sei quello che mi dici di essere. Anche se vedo un uomo eterosessuale che sembra effeminato. Non mi faccio un’idea sulla sessualità di qualcun altro.

Quindi non hai avuto occasioni significative?

Mi è successo che un coming-out l’ho dovuto fare a tutti i costi nel 2017.
Io ho una madre molto omofoba, molto cattolica, ed ha avuto un problema molto grave. E le avrei voluto parlare di me, però poi ha avuto questo problema al cervello, è rimasta paralitica e depressa, non ho mai voluto darle quel corpo di grazia. Non sta bene già da dieci anni.
Io in Italia mi sono molto emancipato con il lavoro che faccio, viaggio molto, mi vesto come voglio.

Ho cominciato a vestirmi con indumenti femminili. La mia famiglia dalla Colombia ha iniziato a minacciarmi, a dirmi che ero la vergogna della famiglia, dicendomi che dovevo comportarmi da maschio. E mi hanno minacciato che se non avessi cancellato tutti i miei social, qualcuno avrebbe mostrato queste foto, dove sono nudo al mare, dove mi bacio con un ragazzo, dove mi trucco, a mia madre, e l’avrebbero fatta morire di infarto.

E mi sono detto: ho due scelte nella mia vita, o censurarmi, ed essere per sempre ostaggio loro, oppure denunciarmi al mondo intero.
Quindi io ho preso tutti questi messaggi che mi hanno inviato, li ho pubblicati in un album, e ho scritto un post infinito, che è diventato popolare su Facebook, al punto che i miei colleghi mi fermavano per strada, per chiedermi come stavo.

Qual era il contenuto del post?

Ho scritto che la mia famiglia, che io ho disconosciuto da allora, mi stava minacciando.
Che avrebbe mostrato le mie foto a mia madre che è una persona anziana e malata, e che io l’avrei fatta morire, e che la mia unica alternativa era di denunciarli pubblicamente. Era di chiedere a loro di commentare, se avevano il coraggio, il nome e cognome della persona che sarebbe andata da mia madre.
Loro dicevano che “qualcuno sarebbe andato” ma non dicevano esplicitamente chi glielo avrebbe detto. Siccome dicevano che io non ero un vero uomo, gli ho detto che se erano veri uomini, di scrivere il nome.

E allora tutti hanno saputo. Mi hanno quasi compatito, dicendomi che era assurdo che io dovessi fare questa cosa pur di vivere tranquillamente. Questo è stato il mio coming-out ufficiale.
E non è finita, perché ormai, da tre o quattro anni, ci sono persone che vanno da mia madre, a dirle che sono omosessuale, e quest’anno ho deciso di andare da lei, e parlarle di persona.
Il coming-out con la società è meno importante, ed è anche relativo, perché mi vedono e lo capiscono. Quello vero non l’ho ancora fatto. Il coming-out vero è quello con mia mamma, perché è la persona da cui vorrei veramente essere accettato.

Grazie di avercene parlato. E’ una storia molto intensa, e ti faccio i compimenti per il tuo coraggio. E buona fortuna!

Grazie.

Comunità LGBT+ di Napoli
Napoli pride

C’è qualche cosa che vorresti che tutti sapessero sulla comunità?

Quello che dovrebbe sapere la società non LGBT? L’altra comunità?
Ho qualcosa a riguardo. Molti esponenti di quell’altra comunità hanno chiamato me e quelli del collettivo per essere istruiti e instradati nella costruzione di workshop sul gender, che è un argomento di cui si parla nel campo didattico e artistico di recente.

Un mio amico ha fatto una riunione di quattro ore con me, un mio amico nonbinary e una mia amica trans. Ci ha bombardato di domande.
E alla fine, ci ha detto “Per la prima volta nella mia vita, vedo un tipo di dialogo così fluido”. Intendeva che nessuno di noi dava risposte assolutiste. Il dialogo non aveva l’obbiettivo di capire chi aveva ragione e chi aveva torto. Non c’era un tentativo di sopraffazione. Lui ha detto “questo fra di noi non esiste, c’è sempre chi ha ragione e chi ha torto, e chi deve convincere l’altro della sua opinione.”

Sono proprio quelle dinamiche del patriarcato, e della sopraffazione. Una visione del mondo binario: o sì o no, o tutto o niente. E poi abbiamo anche fatto una discussione a riguardo con il collettivo. Abbiamo notato il fatto che siccome noi siamo abituati ad indagarci, e a metterci in discussione, ne risulta un dialogo molto più fluido.
Nella nostra comunità, quella del collettivo, c’è un modo di interagire bello. Vorrei che tutti conoscessero questa possibilità. Questo approccio di indagine, e di ascolto.

Cambiare il proprio modo di approcciarsi agli altri, forse è una delle cose più difficili da fare, ma è possibile con tanto lavoro. Ti ringraziamo per averci permesso di intervistarti.

Grazie di avermi coinvolto.

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